|
LE ORIGINI DELLA PORCELLANA
Il mito della porcellana nasce in Europa durante
il XIII secolo quando i primi intraprendenti mercanti europei, fra i quali
va ricordato il veneziano Marco Polo, decidono di tentare l'avventuroso
viaggio verso le terre lontane della Cina e al loro ritorno, insieme a sete
pregiate e spezie, portano anche alcuni esempi di vasellame eseguito in
questo misterioso materiale.
Non è facile stabilire con esattezza in che
epoca sia stata avviata nell'Est asiatico la produzione della porcellana
anche se si è generalizzata la consuetudine di circoscriverla intorno
all'anno Mille quando apparve un tipo di vasellame ad impasto molto duro e
abbastanza chiaro ricoperto di una vernice bianca o marrone, comunemente
definito “proto-porcellana”. Va comunque precisato che la messa a punto di
questo straordinario prodotto artificiale cinese così come noi lo
conosciamo, è il risultato della fusione fra le diverse esperienze dei
ceramisti del vicino e del lontano oriente avvenuto nel Duecento a seguito
della conquista dei Mongoli. Fu grazie a questi contatti con la Persia e la
Mesopotamia che giunse in Cina l'arte di decorare il vasellame con il blu di
cobalto, tecnica che, realizzata sul più raffinato impasto caolinico cinese,
doveva dare l'avvio a quella spettacolare produzione di porcellane dette in
“bianco e blu” che tanto a lungo avrebbe condizionato il gusto dell'Europa.
L’ Europa ammira attonita questi rari e preziosi oggetti che tra il XV e il
XVI secolo iniziano ad essere importati prima limitatamente dai portoghesi
e, successivamente al 1602, anno in cui venne costituita la “Compagnia delle
Indie”, sempre più numerosi per soddisfare la crescente richiesta dei
raffinati aristocratici europei che morbosamente se li contendevano per le
loro eteroclite collezioni racchiuse nei “cabinets de curiositées” o “wunderkammer”.
Il successo delle porcellane cinesi trasformò automaticamente il raro
materiale di importazione nella maggior fonte d'ispirazione per i ceramisti
sia europei che del vicino e medio oriente. Tutta l'arte vasaia a partire
dal Rinascimento fino a tutta la prima metà del secolo XVIII, da un lato
sembra volta a riprodurre su altro materiale decori e forme che ricalcano
quelli più tipici della lontana Cina, e dall'altro con rinnovati esperimenti
mostra tenacemente di non volersi arrendere di fronte al nascosto mistero
del bianco impasto della porcellana, duro come una pietra semipreziosa
bianco e translucido, che continua a rivelarsi inspiegabilmente
irriproducibile con le terre dei paesi europei.
Le difficoltà tecniche e chimiche che ne hanno
bloccato nel nostro territorio fino ai primi anni dei Settecento la
realizzazione, hanno come conseguenza trasformato la porcellana in un
materiale mitico intorno al quale sono fiorite favolistiche leggende e
coloriti aneddoti che hanno contribuito non poco all'aura di mistero e di
preziosità di cui tanto a lungo ha beneficiato la produzione sia cinese che
giapponese, tanto che il Barone von Tschirnhaus, un aristocratico sassone,
critico nei confronti della dispendiosa passione per la porcellana orientale
di Augusto il Forte, non esitò a definire la Cina una “sanguisuga della
Sassonia” mentre nel contempo indirizzava l'Elettore verso i più proficui
esperimenti per produrla in loco. Tutto ciò avveniva durante l'ultimo
decennio del Seicento quando il problema della fabbricazione della
porcellana era divenuto oggetto di studio da parte di quella particolare
nuova categoria di studiosi naturalisti, che operavano i più disparati
esperimenti sotto l'egida delle “Accademie”, in particolare la “Academie des
Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. Il Barone von
Tschirnhaus apparteneva a questa categoria di uomini politici impegnati
culturalmente e fra l'altro fervidi propugnatori di quel mercantilismo
divulgato da Colbert che puntava sullo sviluppo delle manifatture reali per
la completa auto-sufficienza dello stato. Subito dopo l'ascensione al trono
di Augusto il Forte - avvenuta nel 1694 - proprio per questi suoi contatti,
venne incaricato dal nuovo Elettore di esaminare le potenzialità minerarie
della Sassonia con la finalità di utilizzarle per impiantare nuove
fabbriche. In questa atmosfera di ricerche scientifiche e di relazioni
accademiche, trovò largo spazio anche una nuova categoria di geniali
avventurieri, gli arcanisti, che promettevano sensazionali risultati e in
particolare lasciavano intendere di poter trasformare in laboratorio dei
vili metalli in oro. Fra questi personaggi, certamente geniali sebbene di
pochi scrupoli, riscosse particolare attendibilità proprio con il miraggio
di riuscire a tramutare qualsiasi metallo in oro, un giovane sassone, Johann
Friedrich Bóttger, che nel 1701, appena diciannovenne, venne letteralmente
rapito da Augusto il Forte e sostenuto per qualche anno ad esercitare
dispendiosamente le sue discusse capacità alchemiche. Tuttavia quando nel
1707, una volta accertata l'inutilità dei suoi esperimenti, gli venne
imposto di lavorare sotto la sorveglianza del Barone von Tschirnhans, le sue
conoscenze di tecnico di laboratorio gli permisero di scoprire finalmente -
già nel 1708 - il mitico segreto della composizione della porcellana
individuando i due componenti basilari dell'impasto, il caolino o il
feldspato: il primo inattaccabile anche ad altissime temperature e il
secondo fusibile durante la cottura e quindi con l'essenziale funzione di
legante per gli infinitesimali granuli caolinici.
Anche l'Europa scoprì quindi così, grazie proprio al “ciarlatano” Bóttger, di
cosa erano costituite le “ossa” e la “carne” dello scheletro della
porcellana secondo la felice definizione usata dai cinesi per designare il
caolino e il feldspato.
DA MEISSEN ALLA REAL FABBRICA DI
CAPODIMONTE (1743-1759)
La fabbrica di Meissen, entrata in attività nel
1710 non riuscì a mantenere a lungo segreta la formula della composizione
della porcellana caolinica, ossia di quel tipo di porcellana comunemente
detta “La pasta dura”. Le prime informazioni vitali trapelarono già nel
1717, quando Bóttger sotto l'effetto dell'alcool si fece circuire dal
doratore C. K Hunger, un collaboratore esterno della fabbrica. Hunger,
ottenute le notizie essenziali, si spostò subito a Vienna dove Claudius
Innocent Du Paquier desiderava aprire una fabbrica in concorrenza con quella
di Meissen. Tuttavia ben presto ci si rese conto che per produrre la
porcellana non era sufficiente conoscerne la composizione chimica, ma perché
il processo di fusione e di agglomeraggio potesse verificarsi, era
essenziale procedere alla cottura in fornaci che consentissero il
raggiungimento di temperature altissime, molto superiori a quelle necessarie
per le maioliche. Du Paquier quindi per riuscire nel suo intento, dovette
attendere fino al 1719 quando anche Stólzel, un tecnico dì Meissen decise di
spostarsi a Vienna, portando con se i disegni del forno speciale da
porcellana.
La terza fabbrica europea ad entrare in attività
fu quella del veneziano Francesco Vezzi, un ricco orafo che approfittando di
uno dei tanti litigi fra Du Paquier e Hunger convinse quest'ultimo nel 1720
a spostarsi a Venezia. Oltre a portare con se il segreto alchemico della
composizione della pasta e della tecnica di cottura Hunger era certamente in
grado di far giungere di contrabbando a Venezia il caolino sassone dalle
miniere di Aue. Quando nel 1727 Hunger abbandonò Francesco Vezzi che si
trovava in gravi difficoltà finanziarie, rientrando a Meissen svelò alle
autorità questo traffico clandestino. Le autorità Sassoni intervennero con
severissimi controlli e misure punitive e bloccando da quel momento le
esportazioni non autorizzate, segnarono di fatto la fine della agonizzante
fabbrica veneziana e costituirono allo stesso tempo una battuta di arresto
per i nuovi imprenditori desiderosi di entrare in competizione con la
fabbrica reale di Meissen e quella privata del Du Paquier. Fra le prime
manifatture europee apertisi nella “seconda ondata” troviamo ancora una
fabbrica italiana, fondata a Doccia dal Marchese Carlo Ginori, grazie ad un
privilegio che egli riuscì a ottenere dal Granduca di Toscana Francesco III
nel 1737, privilegio che gli consentì inizialmente di importare il prezioso
caolino e di avviare una produzione sistematica a partire dal 1740. Pochi
anni dopo nel 1743 apriva anche la fabbrica borbonica di Capodimonte dove,
tuttavia, per aggirare l'ostacolo dell'assenza di caolino, introvabile nelle
province meridionali - bisognerà attendere la fine del Settecento per
individuarne una cava - si trovò il sistema di mettere a punto un impasto
diverso basato sulla riuscita unione di varie argille più o meno tutte
fusibili ossia una cosiddetta “pasta tenera”. La manifattura di Capodimonte
inizia la sua produzione nel 1743 in un edificio già esistente che
l'architetto Ferdinando Sanfelice aveva trasformato con grande rapidità in
soli tre mesi. In precedenza, tuttavia, le ricerche alchemiche per
individuare la formula più idonea per l'impasto della porcellana si erano
protratte per alcuni anni da prima del 1740 - in alcuni locali a ridosso del
Palazzo Reale di Napoli dove, secondo i racconti di alcuni storici, Carlo
Borbone e la sua consorte Maria Amalia di Sassonia erano soliti seguire e
controllare quotidianamente gli esperimenti che il chimico fiorentino Livio
Vittorio Schepers andava attuando con le terre che i presidi delle varie
province del regno raccoglievano nelle cave locali e inviavano a Napoli. Nel
1743 i risultati raggiunti da Livio Schepers devono comunque essere stati
giudicati abbastanza soddisfacenti e tali da ritenere giunto il momento di
avviare la produzione in locali idonei, quelli appunto riadattati dal
Sanfelice. Abbastanza presto dopo il trasferimento nel parco di Capodimonte
inizia una produzione che già da alcuni documenti del 1744 sembra di
notevole portata, affidata per i decori pittorici all'abile e raffinato
Giovanni Caselli e per il modellato al geniale scultore fiorentino Giuseppe
Gricci.
Dal punto di vista tecnico e artistico non vi è
dubbio che il successo delle porcellane di Capodimonte va attribuito alla
triade Schepers, Caselli e Gricci che seppero in modo felice armonizzare
qualità d'impasto, decorazione pittorica e modellato. Le caratteristiche
della pasta tenera di Capodimonte, ad alto contenuto feldspatico, vennero
sapientemente esaltate dalle belle miniature eseguite in punta di pennello
da Giovanni Caselli, che per la capacità propria alla pasta tenera di
permettere alla vernice di copertura di “assorbire” la decorazione, si
presentano ai nostri occhi con un piacevolissimo e inconfondibile effetto di
“sotto vetro”. Anche i problemi di modellato derivanti dall'alta fusibilità
dell'impasto che non consentiva di indugiare in minuti dettagli dato che
durante la cottura tutti gli spigoli troppo vivi subivano un processo di
arrotondamento, vennero brillantemente risolti da Giuseppe Gricci. Costretto
a rinunciare a quelle rifiniture prettamente rococò utilizzate felicemente
dalle fabbriche tedesche che lavoravano pasta dura - nastri annodati e
svolazzanti, trine alle scollature delle dame, mani dalle minute dita ben
stagliate - il Gricci si concentrò nell'armonia strutturale delle figure e
nel movimento delle composizioni trasformando i limiti propri dell'impasto
di Capodimonte nell'elemento di maggior fascino. In occasione della mostra
del 1986 “le Porcellane dei Borboni di Napoli” ho ritenuto essenziale dare
particolare risalto alla ricostruzione delle fonti di ispirazione che
condizionarono in modo particolare proprio Gricci. L'indagine capillare
condotta in quell'occasione ha dimostrato che esse sono riconducibili
essenzialmente a tre indirizzi artistici: al rinnovato linguaggio
“classicista” e “naturalista” divulgato dai Carracci e raccolto in
precedenza da un'ampia fascia di artisti seicenteschi; al tema della
quotidianità scoperto sotto le istanze rococò del Settecento e poi propagato
da artisti di varia nazionalità tanto italiani (Pietro Longhi) che francesi
(Chardin, Natoire) e inglesi (William Hogarth); infine a due artisti,
diversi e affini allo stesso tempo, Giovanbattista Piazzetta e Antoine
Watteau, impareggiabili descrittori, il primo di un mondo pastorale nel
quale personaggi di diverse classi sociali sono colti con profonda
sensibilità, e il secondo, illustratore del mondo dei sogni e degli studi
d'animo. A questi tre indirizzi generali, vanno aggiunti per i temi sacri le
grandi fonti barocche toscane e romane, e per la commedia d'arte quegli
artisti che sotto l'emozione di determinati spettacoli teatrali ne avevano
immortalate le formule: in Francia ancora Watteau e a Firenze il violento e
suggestivo Gian Domenico Ferretti.
Benché l'apporto personale di Giuseppe Gricci
sia quello che con maggiore forza si palesa quando si vuole procedere per
una valutazione artistica delle porcellane di Capodimonte, alcune
considerazioni collaterali mi hanno portato a credere che l'influsso di
Giovanni Caselli deve essere stato determinante anche sul capo modellatore.
Non può essere una casuale coincidenza che quelle plastiche da noi oggi
ritenute i capolavori di Gricci siano state tutte eseguite negli anni
immediatamente precedenti o successivi, al 1750, ossia prima della morte del
Caselli avvenuta nel 1753. E mi riferisco alla serie dette “Le voci di
Napoli”, “La vita domestica”, “La commedia dell'arte” e i gruppi galanti,
ossia a quei modelli caratterizzati da figure molto longilinee, definite
anche in gergo dagli amatori “a testa piccola” per il particolarissimo
rapporto esistente tra la testa ed il corpo dei personaggi. Negli ultimi
anni di Capodimonte, successivamente al 1755, e durante il primo decennio di
attività della fabbrica del Buen Retiro, le plastiche di Gricci, oltre a non
presentare più questa felice caratteristica sono articolate in composizioni
più classiche caratterizzate dalla perdita degli elementi umoristici e
romantici più propri del periodo napoletano e che trovano invece puntuali
riscontri nelle miniature che eseguiva Caselli.
Nel 1759 Carlo di Borbone, chiamato alla morte
del fratellastro ad occupare il trono di Spagna con grande magnanimità
lasciò a Napoli la preziosa raccolta Farnese e sostanzialmente tutto il
patrimonio artistico locale da lui potenziato. Costituiranno l'unica
eccezione le strutture amovibili della manifattura di Capodimonte, i
relativi materiali esistenti nei magazzini, le forme, ma soprattutto i
prestigiosi artefici che avevano reso possibile il miracolo Capodimonte:
uomini e cose vengono imbarcati su tre tartane al seguito del sovrano e,
sistemati in un edificio al Buen Retiro, dove in meno di un anno, furono in
grado di riprendere l'attività interrotta sul suolo napoletano.
LA REALE FABBRICA FERDINANDEA
Partendo da Napoli re Carlo, oltre a portare al
suo seguito in Spagna quanto era trasportabile dalla Fabbrica di Capodimonte,
aveva esplicitamente cercato di rendere inagibili le strutture fisse, sia
perché dalla Spagna egli ormai temeva che una ripresa di produzione della
porcellana a Napoli potesse rivelarsi una temibile concorrente per quella
del Buen Retiro, e sia per il morboso attaccamento riservato alla sua più
riuscita manifattura napoletana. Quindi per tutto il periodo della reggenza,
con Ferdinando IV giovane ragazzo - al momento della partenza del padre
Ferdinando aveva solo nove anni - il progetto di una nuova fabbrica per la
porcellana non si pose nemmeno sebbene molti degli antichi lavoranti di
Capodimonte rientrati dalla Spagna, scrivessero lettere per ottenere sussidi
o per suggerire di rinverdire una tradizione che tanto lustro aveva dato
alla corona al tempo di Carlo. Si dovette però attendere la maggiore età di
Ferdinando IV perché il giovane re potesse iniziare a prendere delle
iniziative autonome sottraendosi al pesante controllo che il padre
esercitava dalla Spagna attraverso il suo fidatissimo ministro Bernardo
Tanucci che quotidianamente lo informava epistolarmente dei più minuti
avvenimenti napoletani. Tra le prime decisioni autonome di Ferdinando vi fu
però l'apertura di una nuova fabbrica di porcellana, i cui esperimenti
iniziali vennero addirittura condotti in un ufficio in gran segreto
all'insaputa del ministro Tanucci proprio per evitare che dalla Spagna
giungesse un veto prima che si fossero ottenuti dei risultati. Soltanto nel
1773 quando si erano già risolti sia i problemi tecnici che quelli
diplomatici con Carlo, la nuova fabbrica venne spostata a Napoli e iniziò la
sua effettiva produzione. Prima di addentrarci in un esame dettagliato di
questa seconda produzione napoletana va precisato che, mentre la produzione
della precedente fabbrica di Capodimonte può essere considerata come
rispondente a caratteri stilistici unitari per la brevità del suo periodo di
attività, le porcellane della Real Fabbrica Ferdinandea appaiono
stilisticamente suddivisibili in tre ben diversi periodi: il primo dal 1773
al 1780 quando la direzione artistica venne affidata al celebre pittore e
scultore Francesco Celebrano - il cui ruolo si rivelerà determinante
soprattutto ai fini formativi per la nuova generazione di plasticatori - e
l'effettiva conduzione amministrativa a Tommaso Perez; il secondo e
felicissimo periodo della direzione di Domenico Venuti - dal 1780 al 1799 -
in coincidenza con l'aureo ventennio nel quale si ebbe il momento di
maggiore fioritura di tutte le arti napoletane oltre al grande exploit della
Real Fabbrica Ferdinandea della porcellana; infine gli ultimi e difficili
anni - dal 1800 al 1806 – fortemente marcati dalle vicissitudini della
Repubblica Partenopea e dalle difficoltà finanziarie del Regno e in
particolare dalla perdita delle rendite personali di Casa Reale legate alla
eredità di Gastone dei Medici. La produzione del periodo Perez (1773-1780)
dal punto di vista stilistico, risulta sostanzialmente indirizzato su due
filoni: da un lato vi è un nostalgico guardare indietro alla produzione
della precedente manifattura di Capodimonte, con risultati di sorprendente
affinità anche dovuti alla somiglianza di pasta e alla medesima tecnica
puntiforme usata per le decorazioni; dall'altro vi è una certa tendenza a
seguire la moda più attuale imitando specialmente nel vasellame la
produzione della manifattura francese di Sèvres che durante la seconda metà
del settecento fini con l'assumere il ruolo di fabbrica-pilota detenuto in
precedenza da Meissen.
Entrambi i generi, benché oggi siano rivestiti
ai nostri occhi del fascino della rarità - pochissimi sono gli esemplari
giunti a noi e le loro stesse imperfezioni tecniche rappresentino un
elemento di impareggiabile attrazione, denunciano comunque che la nuova
fabbrica non aveva ancora individuato un proprio stile. Anche le poche
figure plastiche che con certezza possiamo attribuire al periodo Perez
sembrano avere come maggiore caratteristica l'assenza di costanti
stilistiche unita alla mancanza di qualsivoglia norma per ciò che concerne
le dimensioni delle figure: alcune decisamente piccole e minute, altre direi
statuarie. Questa mancanza di ripetitività e la consuetudine di non marcare
le plastiche - se non molto raramente ha lasciato nell'anonimato molto a
lungo alcune pur bellissime figure mentre altri splendidi modelli del
Celebrano, a causa dell'affinità di pasta, con la precedente fabbrica di
Capodimonte, o sono state a lungo attribuite a quest'ultima, o alla fabbrica
del Buen Retiro.
Quando negli ultimi mesi del 1779 morì Tommaso
Perez, venne chiamato a sostituirlo il marchese Domenico Venuti che però
oltre ad assumerne il medesimo ruolo tecnico-amministrativo rivestito dal
suo predecessore, abbracciò anche quello ben più complesso della
supervisione artistica. Per il Celebrano la decisione reale - certamente
inattesa - fu dura e difficile da accettare ma obiettivamente il grande
exploit della Real Fabbrica Ferdinandea, non a caso resta legato proprio al
nome di Venuti e al periodo della sua direzione, ossia al felice ventennio
1780-1800.
Poco più di un anno dopo la nomina di Domenico
Venuti a Intendente della fabbrica di porcellana - e sembra per suo
esplicito volere - la materiale direzione artistica venne suddivisa fra due
note personalità, Filippo Tagliolini e Giacomo Milani. Al primo, scultore
affermato, con al suo attivo esperienze nelle fabbriche di porcellana di
Vienna e Venezia, si affidava la direzione del modellato; al secondo veniva
confidata la responsabilità della “Galleria dei pittori”. Parallelamente si
procedeva alla riorganizzazione delle strutture primarie: sappiamo che nel
luglio del 1780 “due tedeschi”, specialisti della fabbrica di Vienna, si
dedicavano ai vari esperimenti per migliorare la pasta della porcellana
mentre sotto la loro consulenza si costruivano nuove fornaci. Altri tecnici
vennero chiamati dalla Toscana - molti erano i contatti di Domenico Venuti
con questa regione in quanto apparteneva ad una nota famiglia Cortonese e in
particolare si cercò di attirare a Napoli i migliori ceramisti della
Fabbrica di San Donato che intorno al 1780 chiudeva, oltre che dalla stessa
fabbrica dei marchesi Ginori a Doccia.
Tuttavia indubbiamente l'aspetto più
interessante della revisione del Venuti, fu la felice intuizione di
trasformare la manifattura Reale in una scuola d'arte avanti lettera. Il
primo passo in questa direzione fu l'istituzione della “Accademia del nudo”
nella quale in corsi pomeridiani tenuti da Costanzo Angelmí, direttore
dell'Accademia di Belle Arti, si insegnavano tecnica e regole del disegno e del
modellato in relazione alla anatomia. Gli artisti maggiormente dotati
venivano in un secondo momento mandati, a spese della Corona, a
perfezionarsi presso gli ateliers dei più noti artisti cittadini, oppure a
Roma dove potevano, a completamento della loro istruzione, riprendere dal
vero le opere d'arte antica dei Musei Capitolini e i monumenti più noti
della città. La manifattura intanto, pur rimanendo sostanzialmente la
fabbrica della porcellana, si articolava in nuove lavorazioni collaterali
come una piccola officina per la lavorazione degli acciai e un settore
dedicato alla “creta all'uso inglese”, ossia a un tipo di terraglia bianca
affine all'earthenware. In aggiunta, negli anni seguenti, con l'arrivo a
Napoli delle sculture antiche in precedenza conservate a Roma nel Palazzo
Farnese, venne organizzato un piccolo laboratorio di restauro per queste
opere delle quali si era anche soliti eseguire perfetti calchi in gesso
destinati alle varie Accademie cittadine.
Per ciò che concerne i motivi decorativi,
l'azione di Venuti fu determinante ai fini della caratterizzazione della
produzione. Egli riuscì ad infrangere una consuetudine ormai stratificata in
tutte le manifatture di porcellana europee, attuata anche a Capodimonte, che
consisteva nel riprendere per i manufatti ceramici scene pittoriche da
incisioni già note, e invece, capovolgendo il rapporto, seppe trasformare i
motivi creati per la porcellana in modelli dai quali si incidevano splendidi
rami che circolando nell'ambiente colto europeo divennero essi stessi una
grande fonte di ispirazione anche nei paesi di oltr'Alpe. Va ricordato che
Domenico Venuti era un uomo di grande cultura, e figlio di quel Marcello
Venuti che aveva dato l'avvio al tempo di Carlo di Borbone ai primi scavi di
Ercolano. Rimasto orfano giovanissimo era stato educato a spese della corona
nella Regia Paggeria di Napoli, istituzione nella quale venivano formati i
migliori funzionari del Regno. Ciò spiega da un lato il suo grande amore per
l'antico, e dall'altro, la predisposizione a cogliere gli aspetti più
interessanti della cultura e delle tradizioni locali. Questi due indirizzi
stilistici, sommariamente riconducibili all'archeologia e al folklore,
trovarono i maggiori mecenati, il primo nella Regina Maria Carolina, e il
secondo nello stesso Ferdinando IV. Di conseguenza in occasione delle grandi
commesse reali, Venuti con meticolosa e colta sensibilità rivolse la sua
attenzione innanzi tutto verso il patrimonio artistico dei Borbone - gli
affreschi pompeiani ed ercolanesi per il “Servizio Ercolanese” mandato in
dono a Carlo III in Spagna nel 1783 e la raccolta di vasi antichi della
collezione borbonica per il “Servizio Etrusco” mandato in dono a Giorgio III
d'Inghilterra nel 1787 - e a seguito di espliciti dispacci reali emessi da
Ferdinando, verso la documentazione iconografica delle Testiture del Regno
nonché delle più belle vedute di Napoli, dei suoi dintorni, e dei più
importanti monumenti archeologici del Regno delle due Sicilie.
Parallelamente quindi ai servizi ispirati a
pitture, bronzi, vasi e sculture di provenienza archeologica si eseguì tra
il 1784 e il 1787 il primo “Servizio delle Vestiture” per il quale i pittori
Alessandro D'Anna e Antonio Berotti ritrassero dal vero “a gouache” le varie
fogge dei vestire in uso a Napoli e nella provincia di terra di lavoro.
Successivamente Antonio Berotti con Stefano Santucci continuarono la loro
minuziosa documentazione iconografica spostandosi capillarmente per quasi
undici anni attraverso i più piccoli e isolati centri abitati. La spedizione
di questi due pittori itineranti che si protrasse fino al 1797, fornì a
Venuti un preziosissimo materiale che permise di realizzare altre versioni
con le figure popolaresche sempre più ampie e complete. Anche il motivo
della veduta venne codificato prima da D'Anna e poi da Berotti e Santucci in
contemporanea a quello delle vestiture regionali e ripreso in seguito con
successo anche da altri artisti cittadini fra i quali va annoverato lo
stesso direttore della galleria dei pittori, Giacomo Milani. I soggetti
delle plastiche, quasi tutte eseguite secondo la moda del tempo in serie
nate per comporre i dessert da centro-tavola, venivano eseguiti dallo
scultore Filippo Tagliolini e da quello scelto gruppo di artisti che si
erano formati alle dipendenze di Celebrano nello stesso stile dei servizi di
piatti ai quali dovevano accompagnarsi. Abbiamo così tutto l'ampio
campionario costituito dai reperti di Pompei e della raccolta Farnese
utilizzato per figure in biscuit da abbinarsi ai servizi ispirati
all'antico, e una colorita e vivace rappresentanza di contadini e di uomini
e donne del napoletano destinati ai servizi con le Vestiture dei Regno e a
quelli con vedute. Una particolare menzione merita il “dessert del Real
Passeggi” che Filippo Tagliolini eseguì tra il 1795 e il 1800 per completare
il “Servizio delle vedute Napoletane” - più noto come servizio dell'Oca
quindi destinato alla tavola dello stesso Ferdinando IV. Il successo
incontrato dal repertorio figurativo individuato da Venuti fu enorme anche
perché rappresentava il perfetto “souvenir” che il turista colto del “Grand
Tour” amava portare con sé rientrando in patria. E proprio grazie a tale
circostanza collaterale questi prototipi, sebbene in parte aggiornati
secondo il gusto ottocentesco, continuarono ad essere ripetuti per oltre
cinquant'anni soprattutto dai tanti decoratori che nell'ottocento si
dedicarono alla pittura su porcellana. Nel 1800 al rientro a Napoli dei
Borbone dopo il breve esilio causato dalla Rivoluzione dei 1799, Domenico
Venuti, accusato di aver collaborato con le truppe francesi, veniva
destituito dalla carica di Intendente. La direzione della Real Fabbrica
Ferdinandea, dopo un breve interregno, veniva affidata a Don Felice Nicolas
che nonostante le gravi difficoltà finanziarie riusciva a mantenerla in
attività fino al 1806. Con l'arrivo dei Francesi, che avvenne appunto, nel
dicembre del 1806, la Real Fabbrica Ferdinandea termina ogni sua attività.
Nel 1807 vengono pagati i lavori lasciati incompleti dagli artisti, si
compilano gli inventari di tutta la produzione esistente nei locali della
fabbrica, e Giuseppe Bonaparte, nel maggio dello stesso 1807, firma il
contratto di cessione della privativa della porcellana ad una società di
privati rappresentata dallo svizzero Giovanni Poulard Prad.
POLIEDRICITA’ DELLA PRODUZIONE CERAMICA NELL’800
Mentre per il periodo aureo della porcellana
napoletana dei Settecento si è potuto tracciare un riepilogo cronologico
seguendo con ordine l'evoluzione stilistica e qualitativa della produzione
borbonica, si rileva al contrario estremamente più problematico riassumere
eventi, trasformazioni estetiche e fonti d'ispirazione della produzione
ceramica ottocentesca.
I traumatici e ripetuti sovvertimenti politici
che si susseguirono a ritmo incalzante per tutta la prima metà del secolo
fino all'Unità d'Italia si ripercossero in profondi rivolgimenti anche nella
vita quotidiana napoletana. Se è vero che la classe degli aristocratici,
sebbene duramente colpita dalla eversione della feudalità, riuscì a
mantenere importanti posizioni politiche, è anche vero che negli incarichi
ufficiali accanto ai nomi delle nobiltà, cominciano ad apparirne altri, del
tutto nuovi e senza blasone. La ricchezza reale caratterizzata dalla
disponibilità di danaro liquido, era infatti passata nelle mani di quella
parsimoniosa borghesia cittadina e provinciale che investiva i suoi capitali
in quei terreni resisi disponibili dall'esproprio dei beni ecclesiastici o
dai latifondi che l'aristocrazia era costretta a vendere per continuare a
mantenere il suo dispendioso tono di vita. Allo stesso tempo la monarchia di
Murat non poteva permettersi di sovvenzionare manifatture reali dovendo
continuamente far fronte alle pressanti richieste di danaro che Napoleone
dalla Francia richiedeva per le sue campagne belliche. In un panorama così
mutevole e instabile non sorprenderà quindi che anche in ambiti minori si
risentissero contraccolpi negativi. Per ciò che concerne la porcellana, come
si è già accennato, il governo francese firma nel 1807 l'atto di cessione
della privativa per la fabbricazione della porcellana a dei privati
rappresentati da Giovanni Poulard Prad. Come sede viene dato ai
concessionari l'ex Monastero di S. Maria della Vita - divenuto oggi
l'ospedale San Camillo - dove la produzione riprende tra notevoli difficoltà
economiche. Fra l'altro nel contratto di cessione il nuovo governo francese,
per garantire un minimo di vendita alla società, aveva promesso di
effettuare acquisti di porcellane corrispondenti ad un imposta mensile di
1000 ducati mentre da parte loro i concessionari si erano impegnati ad
assumere tutto il personale della precedente Real Fabbrica Ferdinandea.
Tuttavia abbastanza rapidamente Murat, a causa
della situazione politica, non fu in grado di mantenere l'impegno
dell'acquisto mensile e di conseguenza Poulard Prad non riuscì a tener fede
a quanto promesso nei confronti degli antichi ceramisti. Questa crisi
aziendale in un certo senso ineluttabile, costrinse gli operai formatisi
alle dipendenze della manifattura reale ad imboccare le strade alternative
della lavorazione della terraglia o della decorazione su porcellane prodotte
all'estero e importate bianche proprio a tal fine. La straordinaria
preparazione sia tecnica che artistica di questa sfortunata classe artigiana
trovò così modo di dar vita ad una vasta e articolata produzione di
ceramiche che la nuova classe abbiente cittadina apprezzò moltissimo anche
per i prezzi diversificati rispondenti alle diverse possibilità economiche
degli acquirenti. Nei circa cinquant'anni che intercorrono tra la chiusura
della Real Fabbrica Ferdinandea e l'Unità d'Italia, Napoli riuscì così a
tener viva molto felicemente l'antica tradizione settecentesca, prima con le
belle porcellane Poulard Prad dove tra ricche e più ottocentesche dorature
ritroviamo i felici soggetti ferdinandei miniati con altrettanta perizia
pittorica. Sono le vestiture regionali, le vedute e i decori pompeiani
individuati e codificati durante la direzione Venuti che ancora una volta
conquistano per la loro “napoletanità” sia i raffinati turisti che la nuova
ricca borghesia cittadina. Successivamente al fallimento e alla chiusura
della fabbrica di Santa Maria della Vita, questi stessi temi li ritroviamo
ancora a lungo, fino a metà '800, dipinti con tecnica sempre più raffinata
da quella ristretta cerchia di miniaturisti che ruotava intorno ai
laboratori di Raffaele Giovine, Francesco Landolfi, Gennaro Cioffi,
Salvatore Mauro, Sebastiano Cipolla, e tanti altri ancora.
Parallelamente i lavoranti più specificatamente
tecnici imboccavano la strada della lavorazione della terraglia, ora
associandosi con i Del Vecchio o i Giustiniani che già da alcuni decenni si
dedicavano a questa lavorazione, o aprendo altre fabbriche a carattere più o
meno familiare in concorrenza con essi. Una particolare menzione meritano i
Migliolo, i Mollica e i Colonnese: i primi associandosi inizialmente ai
Giustiniani produssero splendide terraglie decorate nello stile ferdinandeo
sia con vedute che con scene popolaresche marcate FMGN (Fabbrica Migliolo
Giustiniani Napoli), i Mollica eccelsero principalmente nella lavorazione
delle terre cotte a figure rosse o a figure nere alla maniera dei vasi di
scavo mentre i Colonnese vanno ricordati più che per il vasellame, per le
belle “riggiole” alla napoletana.
DALL’UNITA’ D’ITALIA A OGGI: LA NASCITA
DELLO STILE NATURALISTICO DETTO “CAPODIMONTE”
Ai fini della produzione ceramica napoletana,
l'Unità d'Italia viene a chiudere con una data storica un ciclo produttivo
che di fatto si era andato lentamente estinguendo a partire dal 1850. Dopo
il brillante exploit settecentesco che grazie alle manifatture borboniche
aveva posto le nostre porcellane ai più alti livelli artistici permettendo
loro di contendere il mercato a quelle di Meissen e di Sèvres, la produzione
napoletana aveva potuto affrontare ancora brillantemente la prima metà
dell'Ottocento grazie agli artisti e ai tecnici formatisi all'ombra della
Real Fabbrica Ferdinandea sotto la guida di Domenico Venuti. Ma via via che
a questa prima generazione di operai si erano andate sostituendo le nuove
leve, inevitabilmente cominciò a delinearsi una certa “decadenza”
caratterizzata da aspetti di provincialismo. Chiusesi per fallimento nel
1848 la fabbrica Giustiniani e poco dopo intorno al 1855 quella dei Del
Vecchio, possiamo dire che venne bruscamente interrotta la trasmissione
diretta dei mestiere da padre in figlio e benché sul piano tecnico i giovani
risultino ancora in grado di lavorare bene, sul piano creativo appaiono
fortemente limitati.
Ma anche la materia non è più la stessa: la
porcellana è del tutto scomparsa dopo gli ultimi prodotti che i Giustiniani,
associati ai del Vecchio, avevano sfornato tra il 1830 e il 1840 e anche la
“terraglia all'uso inglese”, che con tanto successo era entrata nelle case
cittadine più agiate, non viene più lavorata. Le varie piccole industrie
cittadine lavorano un impasto di terra più simile alla maiolica che presenta
pochi problemi di foggiatura e di cottura ma che non si presta più alla
esecuzione di servizi di piatti e in genere al funzionale vasellame da
tavola che era stato il maggior vanto della produzione locale durante i
primi cinquant'anni dell'Ottocento.
Ci sentiamo di affermare quindi che è proprio a
partire dal 1850 che si va affermando a Napoli un genere di prodotto
ceramico puramente decorativo e voluttuario come i piatti da muro, le
figurine e gli elementi architettonici nati per essere inseriti nei
“moderni” edifici. In partenza questa evoluzione della produzione trovò
terreno fertile nell'evolversi del gusto tendente ormai apertamente verso i
“Revivals” e che bene esprimevano la situazione sia sociale che politica
degli anni dell'Unità italiana caratterizzata da vive contraddizioni,
causate fondamentalmente dal contrasto tra le esigenze del nascente
capitalismo industriale e la realtà di un paese come l'Italia ancora
contraddistinto da marcate differenze di vita e di costume tra le regioni
del Nord e quelle del Sud. Sul piano culturale tali ambiguità dettero vita a
nuovi e diversi tentativi di rilettura del passato, in particolare la
riscoperta di una cultura popolare (che nelle intenzioni aveva la finalità
di nobilitare le classi più umili e operaie e di avvicinarle a quella
imprenditoriale) e la rilettura di un passato aulico e storicistico che
sfociò nella romantica produzione neo-gotica e neo-rinascimentale.
Il mondo della ceramica più delle altre branche
delle arti cosiddette “minori” venne dilaniato da queste diverse e
contrastanti correnti culturali che a seconda delle particolari realtà
regionali spinse i suoi artefici verso generi anche molto diversi ma in
stretta relazione sia con la situazione locale in cui essi operavano e sia
rispondenti alle esigenze di un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Ne
conseguì che nel centro e nord d'Italia il gusto del “Revival” venne
maggiormente sentito e si sviluppò in contrapposizione al “Naturalismo” e al
“Terismo” più vicino al sentire degli artefici meridionali. Ciò non avvenne
a caso: tutti i movimenti nostalgicamente evocativi del passato, siano essi
il neo-classico il neo-rinascimentale il neo-rococò, al di là del loro
programma etico-estetico, sono sempre stati la via per la riscoperta di una
tradizione artistica nazionale. In altre parole, tali movimenti hanno sempre
coinciso con la nascita e il diffondersi del concetto di nazionalismo. Non
stupisce quindi che l'andare a ritroso nel tempo sia risultato più naturale
in quelle regioni italiane che dall'Unità nazionale ebbero diretti e più
immediati benefici. Al “Sud”, anche se in maniera inconscia, la situazione
di delusione e scontento si manifestò in due modi: concentrandosi su quella
prosaica realtà quotidiana fatta di piccola veristica aneddotica, o sulla
esaltazione del “Naturalismo”, movimento peraltro anche molto attuale in
quegli anni nei quali il “liberty” andava diffondendosi.
In questa sede si è voluto dare particolare
evidenza al passaggio dai prototipi di derivazione settecentesca a quelli
del periodo post-unitario in quanto la lavorazione dei fiori che ancora oggi
costituisce il fulcro della produzione ceramica napoletana che con
nostalgia, sebbene impropriamente, viene in tutto il mondo denominata “Capodimonte”,
discende per i rami dalla evoluzione stilistica verificatisi proprio in
quell'ultimo difficile ventennio del secolo scorso.
LA RINASCITA DELLA TRADIZIONE CERAMICA
Come già accennato, l'Unità d'Italia sorprende
Napoli in un momento di crisi artistica. Riporta Cesare Tropea nel suo
saggio del 1941 “Il Museo artistico Industriale e il Regio Istituto d'arte
di Napoli” che gli scrittori del tempo affermavano che dell'arte applicata
non era rimasta che la tecnica.
Già nel 1853 Carlo Santangelo, in un suo
intervento all'lstituto di Incoraggiamento, notava con rammarico che la
fabbricazione delle porcellane non esisteva più in Napoli per deficienza di
organizzazione e di capitali e che le stoviglie importate dall'estero
avevano invaso il mercato causando il tramonto della produzione locale. Il
Santangelo con grande intuizione, ritenendo che queste arti “hanno bisogno
del disegno lineare che manca ai nostri artisti, poiché mancano fra noi le
scuole industriali”, denunciava il disinteresse delle istituzioni e si
faceva portavoce di provvedimenti al riguardo. li discorso veniva ripreso un
decennio più tardi da Giuseppe Novi che ribadiva la necessità di istituire
scuole d'arte con annesso Museo dove i giovani allievi potessero nel
contempo imparare la tecnica e conoscere le opere d'arte del passato. Va
inoltre ricordato che Novi sosteneva con lungimiranze anche la necessità di
creare una cattedra di ceramica nell'ambito dell'Accademia di Belle Arti.
Dopo l'Unità d'Italia, nel programma più vasto
di revisione generale dell'istruzione artistica nazionale e in concomitanza
con la prima “Esposizione di opere d'Arti Belle” venne organizzato a Parma,
nel settembre del 1870, il Primo Convegno Artistico. In quell'occasione
tutte le città mandarono opere dei loro migliori artisti ma soprattutto i
rappresentanti dei Ministero della Pubblica Istruzione e i vari Componenti
del Comitato, gettarono le basi del nuovo programma di formazione da cui
scaturì il progetto di trasformazione delle Accademie di Belle Arti in
Istituti d'Arte da affiancare a sistematiche Esposizioni che a turno si
sarebbero tenute nelle maggiori città italiane. Fu cosi che a Napoli nel
1877 venne organizzata la grandiosa “Esposizione dell'Arte Antica Napoletana”
e, grazie al prestito delle più importanti famiglie della città, vennero
esposte le eccezionali raccolte private di arte applicata. In particolare le
porcellane, grazie alle raccolte del Duca di Martina de Sangro, dei Conti
Correale, della Duchessa di Bivona e del Principe Filangieri, spiccavano per
la loro straordinaria bellezza. Ne consegui che i maggiori esponenti del
comitato organizzativo, guidati dal Principe Filangieri, si mossero a
livello nazionale per ottenere che a Napoli venisse al più presto aperto un
Istituto di formazione artistica. Grazie anche all'appoggio del Ministro De
Sanctis già nel novembre del 1878, con Regio Decreto, veniva modificato
l'ordinamento dell'Istituto di Belle Arti di Napoli e suddiviso in due
sezioni; la prima con le scuole di pittura, scultura, architettura, e la
seconda dedicata all'insegnamento del disegno e con le scuole di pratica
applicazione. Con un successivo decreto ministeriale dell'ottobre del 1880
veniva istituito il Museo Artistico Industriale con le annesse scuole
officine. Il Consiglio Direttivo presieduto dal Principe Gaetano Filangieri
di Satriano nominava Direttore del Museo per gli acquisti e la raccolta dei
lasciti di opere antiche l'artista Domenico Morelli mentre, per
l'insegnamento della lavorazione della ceramica, si fece ricorso al noto
pittore Filippo Palizzi.
Tali scelte dovevano ben presto dare i loro
frutti. L'officina della Ceramica svolse con successo per almeno un
ventennio il doppio ruolo di scuola e di fabbrica dove, servendosi anche di
ceramisti esterni operanti in quegli anni a Napoli, si eseguivano grandi
opere progettate da Palizzi, da Morelli o da Tesorone. Questa istituzione,
tuttora esistente nella nostra città, svolse un ruolo determinante nel
mantenere viva la tradizione ceramica. Le opere oggi conservate nella stessa
sede ottocentesca di Piazzetta Salazar, illustrano bene l'impegno con cui
maestri e allievi si dedicavano all'arte del gran fuoco.
Qualche dato su fabbriche e ceramisti attivi a Napoli a fine Ottocento:
La Fabbrica Mollica
La fabbrica dei fratelli Mollica venne aperta,
in via Santa Lucia 18, intorno al 1842 da Giovanni, figlio di Pasquale
Mollica, un ex lavorante della Real Fabbrica Ferdinandea divenuto poi capo
operaio dei Giustiniani.
La produzione di questa fabbrica rimase di
preferenza legata al vasellame in “terraglia” e in terra cotta rossa. il
primo periodo è caratterizzato da oggetti molto simili a quelli usciti dalle
fabbriche del Vecchio e Giustiniani; particolarmente belli e di qualità i
vasi di gusto attico, prodotti sulla scia del fiorente filone della
riscoperta dei classico. Con i figli di Giovanni, Ciro, Achille e
Alessandro, che conducono la fabbrica durante la seconda metà dell'800, la
produzione appare indirizzata principalmente verso una imitazione delle
maioliche di Castelli e di Urbino. Dei tre fratelli, Achille riscuote
particolari riconoscimenti per le sue decorazioni pittoriche nelle varie
esposizioni italiane degli ultimi anni dell'Ottocento. I suoi oggetti,
legati al tipico filone dei “Revival”, stupiscono i contemporanei oltre che
per la felice mano nel dipingere - era stato un allievo dell'Istituto di
Belle Arti - per la notevole perizia tecnica che gli consentiva di
realizzare forme particolarmente ardite.
La Fabbrica Mollica continuerà la sua attività
brillantemente nel nuovo secolo, fino al 1978 quando nuove e insormontabili
difficoltà di gestione la costringeranno a interrompere la sua produzione.
A questa manifattura va riconosciuto il merito
di aver svolto, tra il 1950 e il 1970, un importante ruolo divulgativo delle
porcellane dette di “Capodimonte” individuando per prima le lavorazioni “a
fettuccia” e dei fiori a tutto tondo modellati a mano.
La Fabbrica Cacciapuoti
La fabbrica venne aperta da Guglielmo e Ettore
Cacciapuoti, i figli di Giuseppe, un buon incisore di cammei passato alla
ceramica in seguito al suo matrimonio con una figlia di Giovanni Mollica.
La fabbrica dei fratelli Cacciapuoti è fra le
più note nell'ultimo ventennio dell'Ottocento per la sua produzione di
plastiche e di vasellame. La documentazione ottocentesca giunta a noi è
scarsa, ma da ciò che è stato possibile rintracciare, si deduce che questa
produzione di ceramica è quella che presenta maggiori punti di contatto con
la pittura dell'epoca. Scenette popolaresche alla Migliaro e vedute con
barche alla Pratella vengono con amore e perizia riprodotte su piatti di
maiolica che riflettono appieno la situazione culturale cittadina.
Parallelamente alla produzione di placche e piatti dipinti, i fratelli
Cacciapuoti presentarono, alle varie esposizioni nazionali, un grande
assortimento di anfore e di figure femminili abilmente modellate, affiancate
da putti e ricca vegetazione sia terrestre che marina, produzione che fece
ottenere ai nostri, in più occasioni, medaglie e premi di incoraggiamento.
Intanto, Cesare Cacciapuoti, il terzo figlio del
capostipite Giuseppe, mentre i due fratelli avviano in proprio la fabbrica
prima descritta, si associa ad un fabbricante di stoviglie già attivo a
Napoli, lo Schioppa, e con lui dà l'avvio ad una produzione di oggetti più
minuti, detti “statuine-giocattolo”, che rispondevano maggiormente alle
esigenze della piccola borghesia napoletana. Nei primi decenni del nostro
sécolo, Cesare Cacciapuoti si sposta a Milano dove i suoi due figli, Mario e
Guido aprono, nel 1927, associandosi con Angelo Bignami una interessante
manifattura denominata “Grès d'arte Cacciapuoti” successivamente divenuta la
“Ceramiche e grès d'arte Cacciapuoti”. Tale manifattura, tra alterne
vicende, ha continuato a lavorare fino agli anni '70.
La Fabbrica Mosca
La famiglia Mosca, prolifera di ceramisti, fu
partecipe a varie attività private e molti dei suoi componenti diressero
manifatture contrassegnate anche da altri nomi di fabbrica. L'attività della
vera e propria fabbrica Mosca, inizia intorno al 1865 con il nome di R.
Mosca e C., dopo poco però la ditta si scioglie per riaprire sotto il nome “Fratelli
Mosca” e passare, sempre nel 1865, proprio al N' 14 di Via Marinella, già
sede della celebre manifattura Giustiniani. Insieme ai locali la “Fratelli
Mosca” eredita dai Giustiniani oltre che dai Del Vecchio numerosi lavoranti
specializzati.
Luigi Mosca dirige questa manifattura, che nel suo indirizzo generale tende
a ridurre la produzione degli oggetti, per incrementare quella
fortunatissima dei quadrelli per pavimenti. Va anche ricordato che egli mise
a punto un vaso igienico chiamato volgarmente il w.c. Mosca - considerato
all'epoca tanto rivoluzionario da meritargli numerosi premi e una medaglia
d'oro dell'istituto d'Incoraggiamento. Risulta quindi evidente che questa
fabbrica dette particolare importanza alla produzione funzionale, intuendo
fra le prime, che il futuro della ceramica non lasciava molto spazio
all'artista, e che era più logico servirsi di essa per abbellire si, ma
principalmente rendere più pratiche le abitazioni.
La fabbrica di Enrico Delange e la
“Industria Ceramica Napoletana”: due attività di Giuseppe Mosca
Giuseppe Mosca, al contrario di suo fratello
Luigi (proprietario e direttore della fabbrica Mosca) riveste un ruolo molto
importante nella storia della ceramica artistica cittadina. li suo
curriculum inizia quando il francese Enrico Delange verso il 1872 decide di
aprire una fabbrica e gliene affida la direzione. Il Delange in precedenza
si era appoggiato alla fabbrica Mosca facendovi eseguire pavimenti, su suoi
disegni che poi smerciava sul mercato parigino. Evidentemente l'iniziativa
si era dimostrata valida tanto da spingerlo ad aprire una fabbrica in
proprio. Ma pochi anni dopo, nel 1880, il figlio di Delange, forma una
società, chiamata “Ceramica Architettonica e Artistica”, con l'architetto
Diego Calcagno e decide di occuparsi di persona della produzione, che
consisteva in pavimenti semplici e artistici, stufe, caminetti, portali e
fregi prevalentemente in stile turco.
Giuseppe Mosca, lasciata quindi la manifattura
di Enrico Delange passa alla direzione della “Industria Ceramica Napoletana”.
Alle spalle di questa iniziativa esisteva una società formata dal conte
Candida Gonzaga, dal Principe Capece Minutolo e dal marchese Lignola oltre
che da altri soci. Purtroppo nel giro di una decina d'anni subentrarono gli
inevitabili attriti fra gli azionisti e l'iniziativa fallisce intorno al
1890. Eppure questa fabbrica fu l'unica, a mio parere, ad avere una
produzione plastica ad un certo livello artistico e di notevole impegno
tecnico. Le sue ceramiche sono le sole ad avere un respiro più ampio, meno
“familiare”; si sente il tentativo di allargare un discorso culturale e
nello stesso tempo tentare moderne soluzioni da industria su larga scala.
Armonici e grandi gruppi in terraglia bianca di ispirazione mitologica e in
stile neo-rococò con donne e putti avvolti da eleganti panneggi venivano
prodotti per l'arredamento dei salotti gentilizi, mentre contemporaneamente
una produzione di gusto popolaresco, naturalistica, veniva curata con eguale
amore per assecondare il gusto della media borghesia.
Accanto alla produzione plastica, troviamo anche
esempi di portati dalla complessa e monumentale fattura, belle placche
decorative e vasi arricchiti da fregi in rilievo. Ci rincresce che questa
manifattura non fosse più attiva nel momento dei “Liberty” perché in questo
caso forse Napoli avrebbe potuto inserirsi anche con plastiche e oggetti, e
non solo con i pavimenti, a livello europeo. Ma chiusasi la fabbrica
“Industria Ceramica Napoletana”, Giuseppe Mosca pur aprendo una piccola
attività in proprio fu costretto a rientrare nei limiti tecnici ed economici
che un'iniziativa personale inevitabilmente comportava.
La fabbrica Campagna
Fra le più rinomate fabbriche cittadine di
maioliche per rivestimenti e pavimenti attive intorno al 1900 bisogna
annoverare certamente la manifattura di Gaetano Campagna posta nella prima
traversa della Strettola Sant'Anna alle Paludi Gaetano Campagna era
subentrato nella direzione della fabbrica al padre Stanislao intorno al
1890; la produzione paterna era già ottima, naturalmente in stile ora
neo-barocco ora neo-rococò, ora naturalistico. Un particolare impegno veniva
posto nella realizzazione dei pannelli religiosi per edicole stradali,
frontespizi di chiese, androni. La facciata della fabbrica venne rivestita
tra il 1905 e il 1910, in più riprese, con fregi maiolicati, che
miracolosamente sono rimasti al loro posto e sono ancora oggi visibili. In
un angolo si può leggere su di una lapide: “in questa casa, dove realizzò il
suo sogno di lavoro, moriva il 28 gennaio 1932, Gaetano Campagna. i suoi
operai ceramisti, per i quali egli fu padre, questo ricordo posero, ad
imperitura riconoscenza, ottobre 1922”.
Questa manifattura, venne effettivamente molto
seguita e amata dal proprietario. Campagna non aveva figli, abitava nella
palazzina accanto alla fabbrica dedicando ogni pensiero al lavoro e ai suoi
operai. La vedova di un suo pittore ceramista, la moglie di Gaetano Guida,
mi ha parlato, solo qualche anno fa, ancora commossa della personalità di
Campagna. Non c'è quindi da meravigliarsi se la sua produzione fosse tanto
bella, nata e realizzata in un ambiente familiare. La fabbrica Campagna è
forse quella che a Napoli è riuscita, nel momento del Liberty, a dare
qualcosa in più di quanto non avesse dato in precedenza. Oltre a splendidi
pavimenti da me visti in case private, i fregi esterni di molte fra le più
curate palazzine floreali di Napoli - come ad esempio in Parco Margherita n.
57 vennero eseguiti da questa manifattura con abilità pittorica e senso
stilistico del momento. Particolarmente bella è la produzione di mattonelle
fiorate in leggero rilievo e altre il cui disegno risulta stagliato su di un
fondo che sempre con il rilievo, cerca di imitare l'effetto “craquelé”.
Altri fregi molto raffinati, quasi sempre in blu su fondo bianco, cercano di
riprodurre il ricamo punto a croce. A testimonianza della sua attività basti
guardare il grande motivo di ortensie posto all'esterno della sua fabbrica e
che fra l'altro risente molto, nell'eleganza dell'influsso di quanto veniva
eseguito e insegnato nella scuola Officina del Museo Artistico Industriale.
Alla morte di Gaetano Campagna la manifattura ceramica passò in eredità ad
un suo nipote, che tuttavia nel giro di pochi anni fu costretto a
interrompere l'attività per difficoltà economiche.
|
|